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Il giornalino di Gian Burrasca

La terza puntata della lettura/ascolto del Giornalino di Gian Burrasca.

ASCOLTATE IL GIORNALINO



Ho fretta d'andare a letto, ma prima voglio raccontar qui come sono andate le cose. Quando son ritornato al pian terreno, erano già venute le signorine di nostra conoscenza, come sarebbero le Mannelli, le Fabiani, Bice Rossi, le Carlini e tante altre, tra le quali quella seccherellona della Merope Santini, che si dà il belletto in modo indecente e alla quale la mia sorella Virginia ha appioppato il nome d' uscio ritinto.
 Le ragazze erano molte, ma di uomini non c'erano che il dottor Collalto, il fidanzato di Luisa, e il sonatore di pianoforte che stava a sedere con le braccia incrociate, aspettando il segnale per eseguire il primo ballabile. L'orologio segnava le nove; e il sonatore ha incominciato a sonare una polca, ma le signorine seguitavano a girar per la sala, chiacchierando tra di loro. Poi il sonatore ha sonato una mazurca, e due o tre ragazze si son decise a ballar tra loro, ma non si divertivano. E intanto l'orologio segnava già le nove e mezzo. Le mie povere sorelle non levavano gli occhi dalle lancette che per rivolgerli all'uscio d'ingresso; e avevano un'aria così desolata, che facevano propriocompassione. Anche la mamma era molto preoccupata, tant'è vero che mi son potuto ingoiare quattro gelati uno dietro l'altro, senza che neppur se n'accorgesse. Come mi rimordeva la coscienza! Finalmente, quando mancavano pochi minuti alle dieci, si è sentito una scampanellata. Questa sonata di campanello ha rallegrato le invitate più di tutte le sonate fatte fino allora sul pianoforte. Tutte le signorine hanno dato un gran respirone di sollievo, voltandosi verso la porta d'ingresso in attesa dei ballerini da tanto tempo aspettati. Le mie sorelle si son precipitate per far gli onori di casa...
Ed ecco che, invece degli invitati, entra Caterina con una gran lettera e la porge all'Ada. Luisa e Virginia le si fanno attorno esclamando: - Qualcuno che si scusa di non poter venire! -Altro che scusa! Quella non era una lettera, né un biglietto: era una fotografia che esse conoscevano benissimo e che era stata per tanto tempo chiusa nella scrivania di Luisa. Le mie sorelle son diventate di mille colori, e passata la prima impressione son cominciate fra loro le interrogazioni:- Ma come mai? Ma come può essere? Ma com'è stato?...
-Di li a poco ecco un'altra scampanellata... Le invitate si voltano daccapo verso l'ingresso, aspettando sempre un ballerino, e come prima si presenta invece Caterina con un'altra lettera che le mie sorelle aprono trepidanti: è un'altra delle fotografie da me recapitate l'altro giorno ai rispettivi originali. E dopo cinque minuti, un'altra scampanellata e un'altra fotografia. Le mie povere sorelle erano diventate di mille colori; ero così mortificato nel pensare che io ero l'unica causa di questi loro dispiaceri, che mi misi a mangiar panini gravidi per distrarmi, ma non mi fu possibile, perché il rimorso era troppo grande, e avrei pagato chi sa che per trovarmi non so dove, pur di non vedere le mie povere sorelle in quello stato. Finalmente son venuti Ugo Fabiani ed Eugenio Tinti, che sono stati festeggiati più d'Orazio Coclite dopo la sua vittoria contro i Curiazi. Ma io ho capito perché il Fabiani e il Tinti non avevano fatto come gli altri invitati! Mi son ricordato che sul ritratto del Fabiani era scritto: -
Che caro giovane!
- e su quello del Tinti: -
 Bello, bellissimo, troppo bello per questa terra!
 Ma anche essendo in tre ballerini, compreso il Collalto che balla come un orso, come potevano fare a contentare una ventina di signorine? A un certo punto hanno fatto un carré di lancieri , ma una ragazza ha dovuto far da uomo, e così è finito che hanno imbrogliato ogni cosa, senza che l'imbroglio facesse rider nessuno. Le più maliziose bensì, come la Bice, ridevano tra loro nel vedere che la festa non era riuscita, e che le mie povere sorelle avevano quasi le lacrime agli occhi. Una cosa molto riuscita, invece, sono stati i rinfreschi; ma, come ho detto prima, io ero molto angustiato, sicché non ho potuto assaggiare che tre o quattro bibite, delle quali la migliore era quella di marena, benché anche quella di ribes fosse eccellente. Mentre stavo passeggiando per la sala, ho sentito Luisa che ha detto piano al dottor Collalto:- Dio mio! Se potessi saper chi è stato, come mi vorrei vendicare!...
 È stato uno scherzo indegno! Domani, certo, saremo sulle bocche di tutti, e non ci potrà più soffrire nessuno! Ah, se potessi avere almeno la soddisfazione di sapere chi è stato!.. -In quel momento il Collalto si è fermato dinanzi a me e, guardandomi fisso, ha detto a mia sorella:- Forse Giannino te lo potrebbe dire; non è vero, Giannino?- Di che? - ho risposto io, facendo finta di nulla.
Ma mi sentivo il viso infocato, e poi mi tremava la voce.- Come di che! O chi ha preso dunque i ritratti dalla camera di Luisa?- Ah! - ho risposto io, non sapendo più che cosa dire. -- Forse sarà stato Morino...- Come! - ha detto mia sorella fulminandomi con gli occhi. - Il gatto?- Già. L'altra settimana gli detti due o tre fotografie perché si divertisse a masticarle e può essere che lui le abbia portate fuori e le abbia lasciate per la strada...- Ah, dunque le hai prese tu! - ha esclamato Luisa, rossa come la brace e coli gli occhi che le uscivano dalla testa. Pareva mi volesse mangiare. Ho avuto una paura terribile e perciò, dopo essermi empite le tasche di torrone, sono scappato su in camera.


Assolutamente non voglio essere alzato quando gl'invitati se ne anderanno via. Ora mi spoglio e vo a letto.
16 ottobre.
 È appena giorno. Ho preso una grande risoluzione e, prima di metterla in effetto, voglio confidarla qui nelle pagine di questo mio giornalino di memorie, dove registro le mie gioie e i miei dispiaceri che sono tanti, benché io sia un bambino di noveanni.S tanotte, finita la festa, ho sentito un gran bisbigliare all'uscio di camera mia, ma io ho fatto finta di dormire e non hanno avuto il coraggio di svegliarmi: ma stamani, quando si alzeranno, mi toccheranno certamente delle altre frustate, mentre non mi è ancora cessato il dolore di quell'altre che ebbi l'altro giorno dal babbo.C on questo pensiero, non ho potuto chiudere un occhio in tutta la notte. Non c'è altro scampo, per me, che quello di scappar di casa prima che i miei genitori e le mie sorelle si sveglino. Così impareranno che i ragazzi si devono correggere ma senza adoprare il bastone, perché, come ci insegna la storia dove racconta le crudeltà degli Austriaci contro i nostri più grandi patrioti quando cospiravano per la libertà, il bastone può straziare la carne ma non può cancellare l'idea. Perciò mi è venuto l'idea di scappare in campagna, dalla zia Bettina, dove sono stato un'altra volta. Il treno parte alle sei, e di qui alla stazione in mezz'ora ci si va benissimo.
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Sono bell'e pronto per la fuga: ho fatto un involto mettendovi due paia di calze e una camicia per cambiarmi... In casa tutto è silenzio, ora scenderò piano piano le scale, e via in campagna, all'aria aperta...Viva la libertà!…
 A questo punto il giornalino di Gian Burrasca ha una pagina sgualcita, e quasi interamente occupata dall'impronta di una, mano sudicia di carbone, sopra alla quale è, a caratteri grossi e incerti come se fosse stata scritta con un pezzo di brace, una frase interrotta da un fregaccio. Riproduciamo fedelmente anche questo documento, che è di non lieve importanza nelle memorie del nostro Giannino Stoppani.
17 ottobre.
 La zia Bettina non s'è ancora alzata, e io approfitto di questo momento per registrare qui l'avventura accadutami ieri, e che meriterebbe proprio di esser descritta dalla penna di un Salgari. Ier mattina, dunque, mentre tutti dormivano, fuggii da casa come avevo stabilito, dirigendomi verso la stazione. Io avevo già disegnato nella mente il modo di effettuare il mio progetto che era quello di recarmi a casa della zia Bettina. Non avendo quattrini per prendere il treno e non conoscendo la strada provinciale per andarvi, mi proponevo di entrare nella stazione, aspettare il treno col quale ero andato l'altra volta dalla zia Bettina, e dirigermi per la stessa strada, lungo la ferrovia, seguendo le rotaie, fino al paese presso il quale è la villa Elisabetta dove sta appunto la zia. Così non c'era pericolo di sbagliare, e io, ricordandomi che ad andarci col treno ci si mette tre ore o poco più, mi proponevo di arrivarci prima di sera. Giunto dunque alla stazione, presi il biglietto d'ingresso ed entrai. Il treno arrivò poco dopo, ed io, per evitare il caso di esser visto da qualche persona di conoscenza, mi diressi verso gli ultimi vagoni per attraversare la linea e andare dalla parte opposta alla stazione. Ma invece mi fermai dinanzi all'ultimo vagone che era un carro per bestiame, vuoto, e che aveva la garetta dove sta il frenatore, vuota anch'essa.- Se montassi lassù? -Fu un lampo. Assicuratomi con un'occhiata che nessuno badava a me, saltai sulla scaletta di ferro, mi arrampicai su, e mi misi seduto nella garetta, col ferro del freno tra le gambe, e le braccia appoggiate sul manubrio del freno. Di lì a poco il treno partì e io sentii arrivarmi fin dentro il cervello il fischio della macchina la cui groppa nera io vedevo, di lassù, distendersi alla testa di tutti i vagoni che si trascinava dietro, tanto più che il vetro del finestrino della garetta da quella parte era stato rotto, e non ve n'era rimasto che un pezzetto in un angolo, a punta. Meglio! Da quel finestrino, aperto proprio all'altezza della mia testa, io dominavo tutto il treno che si slanciava a traverso la campagna che era ancora avvolta nella nebbia. Ero felice, e per festeggiare in qualche modo la mia fortuna, cavai di tasca un pezzetto di torrone e mi misi a rosicchiarlo. Ma la mia felicità durò poco. Il cielo s'era fatto scuro, e non tardò a venir giù una pioggia fitta fitta e ad alzarsi un vento impetuoso, mentre una scarica terribile di tuoni si inseguiva fra l'ombre delle montagne...Io non ho paura dei tuoni, tutt'altro; ma mi mettono addosso il nervoso, e perciò appena incominciò a tuonare mi si presentò alla mente la mia condizione in un quadro molto diverso da quello col quale mi era apparso da principio. Pensavo che in quel treno nel quale viaggiava tanta gente ero isolato e ignorato da tutti. Nessuno, né parenti, né estranei, sapeva che io era lì, sospeso in aria in mezzo a così tremenda tempesta, sfidando così gravi pericoli. E pensavo anche che aveva molta ragione il babbo quando diceva roba da chiodi del servizio ferroviario e delle condizioni scandalose nelle quali si trova il materiale. Io ne avevo lì una prova evidente nel finestrino della garetta dal quale, essendo rotto il vetro come ho detto prima, entrava vento e pioggia, facendomi gelare la parte destra della faccia che vi si trovava di contro, mentre mi sentivo la parte sinistra infocata in modo che mi pareva d'esser mezzo ponce e mezzo sorbetto, e ripensavo malinconicamente alla festa da ballo della sera precedente, che era stata la causa di tanti guai. E il peggio fu quando incominciarono le gallerie! Il fumo lanciato dalla macchina si addensava sotto la volta del tunnel, e dal finestrino rotto invadeva la mia angusta garetta , impedendomi il respiro. Mi pareva d'essere in un bagno a vapore, dal quale poi, quando il treno usciva dal tunnel, passavo a un tratto al bagno freddo della pioggia. In un tunnel più lungo degli altri credetti di morire asfissiato. Il fumo caldo mi, avvolgeva tutto, avevo gli occhi che mi bruciavano per la polvere di carbone che entrava col fumo nella garetta e che mi accecava, e per quanto mi facessi coraggio sentivo che ormai le forze erano per abbandonarmi. In quel momento l'animo mio fu vinto da quella cupa disperazione che in certe avventure provano anche gli eroi più valorosi comeRobinson Crosuè, i Cacciatori di capigliature e tanti altri. Ormai per me (così mi pareva) la era finita e volendo che almeno rimanessero, come esempio, le ultime parole di un ragazzo infelice condannato a morire di soffocazione in un treno, nel fiore degli anni, scrissi nel giornalino con uno zolfino spento che avevo trovato nel sedile della garetta le parole della pagina 13:
 Moio per la Libertà!
 Ma non potei finir la parola, perché in quel punto mi sentii un nodo alla gola e non capii più nulla. Devo essermi svenuto di certo, e credo che, se non avessi avuto il ferro del freno tra le gambe che mi reggeva, sarei caduto giù dalla garetta e morto stritolato sotto il treno. Quando rientrai in me stesso, la pioggia gelata mi sferzava di nuovola faccia e mi prese un freddo così acuto nelle ossa, che incominciai abattere i denti. Fortunatamente di lì a poco il treno si fermò, e sentii gridare il nome del paese al quale ero diretto. Io volli scendere alla svelta giù per la scaletta di ferro, ma mi tremavano le gambe, e all'ultimo scalino inciampai e caddi in ginocchio. Subito mi vennero d'intorno due facchini e un impiegato, che mi raccolsero, e guardandomi con tanto d'occhi, mi domandarono come mai mi trovavo lassù sulla garetta.
Io risposi che vi ero salito in quel momento, ma loro mi portarono nell'ufficio del capostazione, il quale mi messe dinanzi uno specchietto dicendomi:- Ah, ci sei salito ora, eh? E codesto muso da spazzacamino quando te lo sei fatto? -Io nel vedermi nello specchio rimasi senza fiato. Non mi riconoscevo più. La polvere di carbone, col fumo, durante il mio disastroso viaggio, mi era penetrata nella pelle della faccia alterando i miei connotati per modo che parevo un vero e proprio abissino. Non dico niente poi degli abiti, ridotti addirittura a brandelli, e sporchi anch'essi come la faccia. Fui costretto a dire da dove venivo e dove andavo.- Ah! - disse il capostazione. - Vai dalla signora Bettina Stoppani? Allora pagherà lei per te. -E disse all'impiegato:- Faccia un verbale di contravvenzione computandogli tre biglietti di terza classe e la trasgressione per aver viaggiato in una garetta riservata al personale! -Io avrei voluto rispondere che questa era una ladronería bella e buona. Come! Mentre le ferrovie avrebbero dovuto per giustizia rifare un tanto a me che mi ero adattato a viaggiare peggio delle bestie, che almeno viaggiano al coperto, mi si faceva invece pagare per tre?Ma siccome mi sentivo male, mi contentai di dire:- Almeno, giacché il viaggiare nelle garettecosta così caro, procurino che ci sieno i finestrini col vetro! -Non l'avessi mai detto! Il capostazione mandò subito un facchino a verificare la garetta dove avevo viaggiato e, saputo che non c'era il vetro, mi fece aumentare la contravvenzione di ottanta centesimi come se l'avessi rotto io! Mi accorsi una volta di più che il mio babbo aveva ragione a dir corna del servizio ferroviario, e non dissi altro per paura che mi avessero a mettere nel conto anche il ritardo del treno, e magari qualche guasto della locomotiva.Così, accompagnato dall'impiegato, mi avviai verso la villa Elisabetta ,e non vi so dire come rimase la zia Bettina quando si vide capitar dinanzi uno straccione così sudicio com'ero io e, peggio ancora, un conto da pagare di sedici lire e venti, e più la mancia all'impiegato che glielo portava!- Che è accaduto, mio Dio?... - ha gridato appena ha potuto capire dalla voce che ero io.- Senti, zia Bettina, - le ho detto - a te, lo sai, dico sempre la verità...- Bravo! Dimmi dunque...- Ecco: sono scappato di casa.- Scappato di casa? Come! Hai abbandonato il tuo babbo, la tua mamma, le tue sor... -Ma si è interrotta all'improvviso, come se le fosse venuto male. Certo si ricordava in quel momento che le mie sorelle non l'avevano voluta alla festa.- È naturale! - ha soggiunto. - Quelle ragazze farebbero perder la pazienza a un Santo!... Vieni in casa, figliolo mio ,a lavarti, che mi sembri un bracino; poi mi racconterai tutto... -Intanto io guardavo Bianchino, il vecchio Barboncino che è così caro alla zia Bettina, e alla finestra della villa il vaso di dìttamo al quale ella è così pure affezionata. Nulla è cambiato dall'ultima volta che ci venni, e mi pare di non essermi mai mosso di qui. Quando mi fui lavato, la zia Bettina si accòrse che avevo un po' di febbre e mi mise a letto, benché io tentassi di persuaderla che era tutta questione d'appetito. La zia Bettina mi fece alcuni rimproveri a mezza bocca, ma in fondo mi disse che stessi pur tranquillo, che da lei non correvo nessun pericolo; e io fui così commosso dalla sua bontà, che volli farle assaggiare un pezzetto di torrone che avevo in tasca dei calzoni, e la pregai di prenderlo, ché così ne avrei mangiato un po' anch'io. Difatti la zia Bettina fece per metter la mano in tasca, ma non fu capace di aprirla.- Ma qui c'è la colla! - disse. Che era successo? Il torrone, col calore del fumo rinserratosi nella garetta, si era tutto strutto e aveva appiccicato la tasca dei calzoni per modo che non era più possibile di aprirla. Basta: la zia mi fece compagnia, finché, alla fine, la stanchezza non mi fece prender sonno... e da allora mi sono svegliato in questo momento, e il primo mio pensiero è stato per te, giornalino mio, che mi hai seguìto sempre, mio fido compagno, a traverso a tanti dispiaceri, a tante avventure e a tanti pericoli...


Stamani la zia Bettina s'è molto inquietata con me per uno scherzo innocente che, in fin dei conti, era stato ideato con l'intenzione di farle piacere. Ho già detto che la zia è molto affezionata a una pianta di dìttamo che tiene sulla finestra di camera sua, a pianterreno, e che annaffia tutte le mattine appena si alza. Basta dire che ci discorre perfino insieme e gli dice: - Eccomi, bello mio, ora ti dò da bere! Bravo, mio caro, come sei cresciuto! –
 È una sua mania, e si sa che tutti i vecchi ne hanno qualcuna. Essendomi dunque alzato prima di lei, stamattina, sono uscito di casa, e guardando la pianta di dìttamo m'è venuta l'idea di farla crescere artificialmente per far piacere alla zia Bettina che ci ha tanta passione. Lesto lesto, ho preso il vaso e l'ho vuotato. Poi al fusto della pianta di dìttamo ho aggiunto, legandovelo bene bene con un pezzo di spago, un bastoncino dritto, sottile ma resistente, che ho ficcato nel vaso vuoto, facendolo passare a traverso quel foro che è nel fondo di tutti i vasi da fiori, per farci scolar l'acqua quando si annaffiano. Fatto questo, ho riempito il vaso con la terra che vi avevo levata, in modo che la pianta non pareva fosse stata menomamente toccata; e ho rimesso il vaso al suo posto, sul terrazzino della finestra, il cui fondo è di tante assicelle di legno, facendo passare fra l'una e l'altra di esse il bastoncino che veniva giù dal foro del vaso e che io tenevo in mano, aspettando il momento di agire. Dopo neanche cinque minuti, eccoti la zia Bettina che apre la finestra di camera, e incomincia la sua scena patetica col dìttamo:- Oh, mio caro, come stai? Oh, poveretto, guarda un po': hai una fogliolina rotta... sarà stato qualche gatto... qualch ebestiaccia... -Io me ne stavo lì sotto, fermo, e non ne potevo più dal ridere.- Aspetta, aspetta! - seguitò a dire la zia Bettina. - Ora piglio le forbicine e ti levo la fogliolina troncata, se no secca,... e ti fa male alla salute, sai, carino!... -Ed è andata a prendere le forbicine. Io allora ho spinto un po' in su il bastoncino.- Eccomi, bello mio! - ha detto la zia Bettina tornando alla finestra. - Eccomi, caro!.. -Ma ha cambiato a un tratto il tono alla voce ed ha esclamato:- Non sai che t'ho da dire? Che tu mi sembri cresciuto!... -Io scoppiavo dal ridere, ma mi trattenevo, mentre la zia seguitava a nettare il suo dittamo con le forbicine e a discorrere:- Ma sì, che sei cresciuto... E sai che cos'è che ti fa crescere? È l'acqua fresca e limpida che ti dò tutte le mattine...Ora, ora... bello mio, te ne dò dell'altra, così crescerai di più... -Ed è andata a pigliar l'acqua. Io intanto ho spinto in su il bastoncino, e questa volta l'ho spinto parecchio, in modo che la pianticella doveva parere un alberello addirittura. A questo punto ho sentito un urlo e un tonfo.- Uh, il mio dìttamo!... -E la zia, per la sorpresa e lo spavento di veder crescere la sua cara pianta a quel modo, proprio a vista d'occhio, s'era lasciata cascar di mano la brocca dell'acqua che era andata in mille bricioli. Poi sentii che borbottava queste parole:- Ma questo è un miracolo! Ferdinando mio, Ferdinando adorato, che forse il tuo spirito è in questa cara pianta che mi regalasti o desti per la mia festa? -Io non capivo precisamente quel che voleva dire, ma sentivo che la sua voce tremava e, per farle più paura che mai, ho spinto in su più che potevo il bastoncino. Ma mentre la zia vedendo che il dìttamo seguitava a crescere,c ontinuava a urlare: Ah! Oh! Oh! Uh!, il bastoncino ha trovato un intoppo nella terra del vaso, e siccome io lo spingevo con forza per vincere il contrasto, è successo che il vaso si è rovesciato fuor della finestra, ed è caduto rompendosi a' miei piedi. Allora ho alzato gli occhi e ho visto la zia affacciata, con un viso che faceva paura.
- Ah, sei tu! – ha detto con voce stridula. Ed è sparita dalla finestra per riapparire subito sulla porta, armata di un bastone. Io, naturalmente, me la son data a gambe per il podere, epoi son salito sopra un fico dove ho fatto una grande spanciata di fichi verdini, che credevo di scoppiare.

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