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Visualizzazione dei post con l'etichetta Si dice o non si dice

Per dire di no, affatto da solo non basta.

Se chiedete a un amico che è venuto a cena da voi:  “Ti piace il risotto?”  e lui vi risponde  “ Affatto ” potreste trovarvi un po' nel panico, e non sapere bene se non gli piace per niente o moltissimo! E questo perchè l'avverbio affatto è ormai comunemente utilizzato in modo negativo come sinonimo di no e per niente.  Affatto però è nato con un significato marcatamente positivo.  Sin dal Trecento affatto, composto di a + fatto, voleva dire interamente, del tutto, completamente.  Per Petrarca: “... Amor s’ingegna / ch’io mora affatto”.  Perché affatto assuma un significato negativo bisogna  farlo precedere da un’espressione negativa come ad esempio niente affatto, per niente affatto, per nulla affatto.  Così avrebbe dovuto rispondervi l’amico per non gettarvi nel panico.  E così ricordate di rispondere voi, se volete dire di no in modo deciso.  Non dimenticate, come ha fatto il vostro amico e come fanno molti, la negazione.  Dite niente affatto, per niente affat

L’ACUTO, IL GRAVE, IL CIRCONFLESSO

GLI ACCENTI Non ci facciamo gran caso, ma la nostra lingua può disporre di due specie di accenti tònici: l’accento grave, un segnetto che va da sinistra verso destra (`) e indica il suono largo o aperto delle vocali e ed o; l’accento acuto, che va da destra verso sinistra (´) , e serve a indicare il suono chiuso o stretto delle stesse vocali.  Perciò se io scrivo caffè, quell’accento grave sulla vocale è segnala che va pronunciata aperta; se invece scrivo perché vuol dire che la é finale va pronunciata chiusa.  E allora, scrivendo, abituiamoci a usare i due diversi accenti secondo il suono che dobbiamo dare alla sillaba tonica in vocale e.  Lo stesso per la o, che in sillaba finale tronca ha quasi sempre il suono aperto: però, amò, falò, ma che nel corpo della parola può a volte avere anche suono chiuso, come in fóro, cólto, cómpito eccetera. Sulla vocale a, che ha sempre per natura suono aperto, l’accento non creerà problemi: sarà sempre grave, come in città, verrà, papà eccete

ABILE, DISABILE E UNA PARENTESI SULL’EUFEMISMO

Dal verbo latino “habere”, cioè avere, deriva habilis nel significato di maneggevole, adatto. Ecco l’origine del nostro abile, che ricopre una vasta gamma di significati, da “capace” a “provetto”. Inoltre, - abile è diventato, nella nostra lingua, un diffusissimo suffisso che, unito a verbi della prima coniugazione, dà luogo ad aggettivi che indicano idoneità: mangiabile, trasportabile, stirabile; oppure qualità morale: amabile, stimabile, deprecabile eccetera.  Nel caso di carrozzabile invece l’aggettivo è formato dal suffisso -abile unito ad un sostantivo: carrozza. Il contrario di abile è inabile, cioè “incapace” .  Quando l’incapacità deriva da limitazioni fisiche abbiamo disabile .  C’è chi dice diversamente abile, ritenendo che dis-abile crei una dis-criminazione. E questo secondo l’etimologia, dal tardo latino discriminatio, vorrebbe dire distinzione, separazione, e peggio ancora, esclusione.  Ma siamo sicuri che l’eufemismo diversamente abile sia più rispettoso che

A ME MI PIACE...

A ME MI PIACE...SI DICE O NON SI DICE Nella pubblicità televisiva di un caffè un famoso attore comico si è servito di questo “ a me mi piace ” pensando di fare una simpatica sgrammaticatura per attirare l’attenzione.  L’attenzione c’è stata senz’altro; la sgrammaticatura no. Si tratta semplicemente dell’uso di un elemento sovrabbondante , inutile secondo la logica, ma utilissimo per dare alla frase un’efficacia particolare .  È insomma la scelta dello stile che giustifica la lieve forzatura grammaticale dell’espressione: il valore rafforzativo di quel mi pleonastico è chiaro.  Altri esempi: “a me non me la dai a intendere”; “lo so che a te non ti va questa faccenda”, “a voi non vi dirò più niente”. Ma attenzione: non dimentichiamo che la frase non solo corretta, ma anche preferibile nel novanta per cento dei casi è “a me piace”, e così dicasi per gli altri esempi: “a me non la dai a intendere”, “lo so che a te non va questa faccenda”, “a voi non dirò più niente”. A me mi, a

Si dice...o non si dice?

A OPPURE IN? È facile sentir dire: “Abitiamo a piazza Navona”, “Rapinato un negozio a via Nazionale”. Ma altrettanto facile e frequente è: “Abitiamo in piazza San Babila”, “Rapinato un negozio in viale Padova”. Quale dei due usi è più corretto? Qui non è questione di corretto o di scorretto: tutte e due le preposizioni, a e in, hanno la funzione di introdurre un complemento di stato in luogo.  Forse se ne può fare, con le dovute cautele, una questione di sfumatura stilistica: a è un po’ più indeterminato; in tende a definire con maggior precisione.  Per esempio, diremo di preferenza “Abito a Genova” perché è uno stato in luogo ampio e poco definito (in quale quartiere, in quale via di Genova?); ma diremo “Abito in piazza De Ferrari” perché qui la localizzazione è ben definita.  E mettendo insieme le cose, diremo “Abito a Genova in piazza De Ferrari”.  È soltanto un suggerimento, siete liberi di fare come volete.  Ma guai a voi se direte “Abito in Genova a piazza De Ferrari”.