GLI ACCENTI
Non ci facciamo gran caso, ma la nostra lingua può disporre di due specie di accenti tònici: l’accento grave, un segnetto che va da sinistra verso destra (`) e indica il suono largo o aperto delle vocali e ed o; l’accento acuto, che va da destra verso sinistra (´), e serve a indicare il suono chiuso o stretto delle stesse vocali.
Perciò se io scrivo caffè, quell’accento grave sulla vocale è segnala che va pronunciata aperta; se invece scrivo perché vuol dire che la é finale va pronunciata chiusa.
E allora, scrivendo, abituiamoci a usare i due diversi accenti secondo il suono che dobbiamo dare alla sillaba tonica in vocale e.
Lo stesso per la o, che in sillaba finale tronca ha quasi sempre il suono aperto: però, amò, falò, ma che nel corpo della parola può a volte avere anche suono chiuso, come in fóro, cólto, cómpito eccetera.
Sulla vocale a, che ha sempre per natura suono aperto, l’accento non creerà problemi: sarà sempre grave, come in città, verrà, papà eccetera.
Le vocali i ed u, hanno suono chiuso che naturalmente richiederebbe l’accento acuto. Ma per convenzione editoriale ormai consolidata viene largamente preferito l’accento grave, soprattutto in fine di parola. Il suono non cambia.
Due parole possiamo spenderle anche per quel particolare accento che ha la strana forma di una v rovesciata (ˆ) e che va sempre più scomparendo dall’uso: il circonflesso.
Si incontra ancora, ma anche qui di rado, nella poesia, per indicare una sincope, cioè la soppressione di una sillaba nel corpo di una parola: côrre per cogliere, tôrre per togliere, fêro per fecero, tôsco per tossico, e così via; o anche per indicare un’apòcope, cioè la soppressione di una sillaba in fine di parola: fûro per furono, amâro per amarono, perdêro per perderono ecc.
Ma quale poeta di oggi pensa più di usare un côrre, un fûro e un perdêro? E se anche li usasse, preferirebbe forse ricorrere anche qui ai due soliti accenti acuto e grave, secondo la pronunzia: féro, perdéro, còrre, tòsco.
Il circonflesso resiste invece di più per indicare la contrazione in una delle due i nel plurale dei nomi in -io con la i atona (non accentata): varî invece di varii, studî invece di studii, armadî invece di armadii (vedi alla voce giudizi o giudizii?).
Ma anche in questo caso il circonflesso appare inutile, bastando una semplice i quando non sia possibile una confusione di senso: vari, studi, armadi.
Nei casi di senso incerto, molti preferiscono, anziché il cinconflesso, la doppia i: assassinii, plurale di assassinio, ma assassini plurale di assassino, ammalii (verbo ammaliare), ma ammali (verbo ammalare).
Tratto dai Dizionari del Corriere
Non ci facciamo gran caso, ma la nostra lingua può disporre di due specie di accenti tònici: l’accento grave, un segnetto che va da sinistra verso destra (`) e indica il suono largo o aperto delle vocali e ed o; l’accento acuto, che va da destra verso sinistra (´), e serve a indicare il suono chiuso o stretto delle stesse vocali.
Perciò se io scrivo caffè, quell’accento grave sulla vocale è segnala che va pronunciata aperta; se invece scrivo perché vuol dire che la é finale va pronunciata chiusa.
E allora, scrivendo, abituiamoci a usare i due diversi accenti secondo il suono che dobbiamo dare alla sillaba tonica in vocale e.
Lo stesso per la o, che in sillaba finale tronca ha quasi sempre il suono aperto: però, amò, falò, ma che nel corpo della parola può a volte avere anche suono chiuso, come in fóro, cólto, cómpito eccetera.
Sulla vocale a, che ha sempre per natura suono aperto, l’accento non creerà problemi: sarà sempre grave, come in città, verrà, papà eccetera.
Le vocali i ed u, hanno suono chiuso che naturalmente richiederebbe l’accento acuto. Ma per convenzione editoriale ormai consolidata viene largamente preferito l’accento grave, soprattutto in fine di parola. Il suono non cambia.
Due parole possiamo spenderle anche per quel particolare accento che ha la strana forma di una v rovesciata (ˆ) e che va sempre più scomparendo dall’uso: il circonflesso.
Si incontra ancora, ma anche qui di rado, nella poesia, per indicare una sincope, cioè la soppressione di una sillaba nel corpo di una parola: côrre per cogliere, tôrre per togliere, fêro per fecero, tôsco per tossico, e così via; o anche per indicare un’apòcope, cioè la soppressione di una sillaba in fine di parola: fûro per furono, amâro per amarono, perdêro per perderono ecc.
Ma quale poeta di oggi pensa più di usare un côrre, un fûro e un perdêro? E se anche li usasse, preferirebbe forse ricorrere anche qui ai due soliti accenti acuto e grave, secondo la pronunzia: féro, perdéro, còrre, tòsco.
Il circonflesso resiste invece di più per indicare la contrazione in una delle due i nel plurale dei nomi in -io con la i atona (non accentata): varî invece di varii, studî invece di studii, armadî invece di armadii (vedi alla voce giudizi o giudizii?).
Ma anche in questo caso il circonflesso appare inutile, bastando una semplice i quando non sia possibile una confusione di senso: vari, studi, armadi.
Nei casi di senso incerto, molti preferiscono, anziché il cinconflesso, la doppia i: assassinii, plurale di assassinio, ma assassini plurale di assassino, ammalii (verbo ammaliare), ma ammali (verbo ammalare).
Tratto dai Dizionari del Corriere
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E ora un viaggio nell'Italia degli accenti...perchè gli accenti sono il "puntino sulla i dei dialetti"!
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