Me ne dia uno
cicciotto, peloso e anche molto felino!
Esistono ricette
politicamente scorrette?
Le abitudini alimentari si sa cambiano da paese a paese, i vegetariani inorridiscono a pensare di mangiare carne e da bravi italiani ci sono moltissimi cibi che non ci sogneremmo mai di toccare, pensate a scarafaggi, uova centenarie, vermi, pesci marci o frutti puzzolenti.
Le abitudini alimentari si sa cambiano da paese a paese, i vegetariani inorridiscono a pensare di mangiare carne e da bravi italiani ci sono moltissimi cibi che non ci sogneremmo mai di toccare, pensate a scarafaggi, uova centenarie, vermi, pesci marci o frutti puzzolenti.
D’altra parte ci
sono cibi che per molti di noi sono normalissimi e che invece dall'altra parte del
mondo suscitano ribrezzo o religiosa costernazione, mettete un indiano di
fronte ad una bella bistecca di vacca o un osservante mussulmano di fronte ad una
scaloppina di maiale, faranno di tutto fuorché leccarsi i baffi!
Ma non sono solo
differenze geografiche quelle che segnano il confine tra “mangiabile” o no, dobbiamo anche pensare in linea
temporale a tutti quei cibi che per i nostri nonni erano succulenti e
normalissimi e che oggi invece sono proibiti dalla legge e dal sentire comune.
Sì perché oggi,
voi, un gatto non ve lo mangereste mai, ma in tempi non proprio lontani era
semplicemente una ricetta come un’altra e in fin dei conti vien da chiedersi
cos’ha un coniglio di meno di un gatto?
Comunque,
intendiamoci bene il presente articolo non vuole incitare a mettere in pentola
nessun felino (cosa che comunque purtroppo alla chetichella avviene ancora
oggi), ma ricordarvi con un “brivido nel piatto” che ci sono antiche ricette
dimenticate che fanno comunque parte della nostra cultura e tradizione culinaria.
Mettiamo bene in
chiaro che cucinare animali da compagnia è proibito dalla legge italiana e
anche scriverne a quanto pare non porta molta fortuna…
ne sa qualcosa l’autore
di un simpatico libro di ricette antiche Tebaldo Lorini, che nel suo “Ricette
Proibite” presenta diversi modi sui generis per cucinare come le nonne di una volta: cicogna
arrosto, volpe alla brace, spezzatino di tasso, porcospino al sugo, ragù di
corvo e
cigno con le arance. Il poverino è stato “raso al suolo” da animalisti
inviperiti e da tutto quel branco di ben pensanti che probabilmente non
riconosce la differenza tra consigliare di fare qualcosa e parlare di “storia
della cucina italiana”!
Da buona
vicentina e i vicentini hanno la fama di essere dei veri “Magna gatti= Mangia
gatti”, non posso esimermi dal dirvi che…..(suspance), ESISTONO RICETTE ANCHE
COL GATTO!
Una volta ci si
andava molto meno per il sottile con gli animali e in tempo di guerra la fame era fame e così si racconta che anche i nostri pelosi amichetti felini fossero un piatto all’ordine
del giorno, quando si lasciavano brincare; la prima ricetta con
carne di gatto risalirebbe addirittura al 1525 ad opera di un certo Ruperto da Nola.
Senza girarci
troppo intorno vi dico che personalmente non ho ancora mai provato la carne di
gatto, ma ho conosciuto diverse persone che dicono di averla assaggiata e ne
paragonano il gusto a quella del coniglio.
Ora per non
scandalizzarvi troppo la ricetta che segue vede come “vittima”
il coniglio, ma va da sé che vista la somiglianza tra le carni ci si può
immaginare che le “nonne di una volta”, mettessero in pentola in modi simili, anche i felini randagi che trovavano in giro.
La mia vecchia
bis-nonna Caterina, questo lo so per sicuro, lo faceva!
Ricetta del “coniglio”
arrosto (per 4 persone).
Ingredienti: 1 coniglio
giovane e ben nutrito (2-3 kg), 1 bicchiere di vino bianco fermo, olio, rosmarino,
aceto, sale e pepe quanto basta, brodo vegetale, grappa.
Mettere il
coniglio a bagno in un pentolone con acqua, aceto e alloro, per una nottata.
In
una pentola di terracotta preparare aglio, rosmarino, olio, sale e pepe; quando
l’olio comincia a friggere unire la carne ed il vino e cuocere il
tutto per circa 4 ore a fuoco lento. Porre attenzione che la carne non si secchi
troppo aggiungendo altro vino o brodo vegetale. Verso fine cottura, alzare la
fiamma per ottenere una perfetta doratura e sfumare con mezzo bicchierino di
grappa.
Ricetta di nonna
Caterina.
Una ricetta
simile la potete trovare anche in un libro di tradizione culinaria vicentina
dell’Accademia Olimpica, un prestigioso ente culturale vicentino; il volume "L'alimentazione
nella tradizione vicentina", è una pubblicazione storica curata dal
professor Terenzio Sartore, vicentino d’hoc, che tra l’altro racconta riguardo al famoso "Gatto in tecia":
"Ogni tanto nelle nostre case, per non venir meno alla tradizione che ci vuole magnagati, si mangiava il gatto. A volte come sostitutivo del coniglio, ma più spesso per fare uno scherzo a qualcuno. Si invitava a una cena - si diceva - di coniglio un gruppo di amici tra i quali ci fosse qualche schizzinoso, qualcuno che aveva giurato che mai avrebbe mangiato gatto in vita sua. Per fargli vincere il sospetto che si trattasse di un gatto si faceva in modo che uno del gruppo, suo intimo amico, lo assicurasse di aver presonalmente seguito la preparazione del presunto coniglio. A fine cena si faceva apparire, tra i miagolii, la pelle impagliata del gatto cucinato, suscitando il disappunto, e spesso le reazioni, anche viscerali, del gabbato.
Tratto da "L'Alimentazione nella tradizione vicentina" a cura del Gruppo di ricerca sulla civiltà rurale, Vicenza, 1999"Ogni tanto nelle nostre case, per non venir meno alla tradizione che ci vuole magnagati, si mangiava il gatto. A volte come sostitutivo del coniglio, ma più spesso per fare uno scherzo a qualcuno. Si invitava a una cena - si diceva - di coniglio un gruppo di amici tra i quali ci fosse qualche schizzinoso, qualcuno che aveva giurato che mai avrebbe mangiato gatto in vita sua. Per fargli vincere il sospetto che si trattasse di un gatto si faceva in modo che uno del gruppo, suo intimo amico, lo assicurasse di aver presonalmente seguito la preparazione del presunto coniglio. A fine cena si faceva apparire, tra i miagolii, la pelle impagliata del gatto cucinato, suscitando il disappunto, e spesso le reazioni, anche viscerali, del gabbato.
In realtà, se
cucinata bene, la carne di gatto non differisce gran che da quella di coniglio
ed è, anzi, meno filosa.
Il gatto di
solito si mangia nel periodo invernale. Dopo averlo ucciso, avergli levato
pelle, testa e viscere, lo si mette a infrolire per alcuni giorni sotto la
neve, oppure in acqua e aceto per due giorni. Dopo averlo tagliato a pezzi loo
si pone poi in un tegame per cavarghe l'acqua (asciugarlo), a volte con aglio,
salvia, rosmarino, sale e pepe (in alternativa alcuni lo mettevano per una
notte nel vino con carote, sedano, aglio, alloro, sale e pepe). Levati gli
ingredienti, i pezzi di carne sono fatti rosolare con olio e burro e, a
volontà, con un po'di cipolla, aglio e prezzemolo. Si cuoce per circa due ore
aggiungendo un po' alla volta un brodo di cottura filtrato, che è stato
preparato a parte, facendo bollire mezzo litro di vino bianco con mezzo limone,
alloro, salvia, chiodi di garofano, cannella, pepe, sale. Il recipiente non va
mai coperto.”
Mi raccomando non
provateci mai, neanche se le bestiole in questione non vi stanno troppo
simpatiche e prendete le informazioni che ho voluto darvi con un sornione “Buono
a sapersi”.
La storia è storia…anche quando è culinaria!
La storia è storia…anche quando è culinaria!
Scusa non posso trattenermi... Vicentino *Doc
RispondiEliminaComunque resta un articolo molto interessante :)
Grazie...in questi giorni è diventato molto attuale!
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