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Niccolò Ammaniti, « Addio all'infanzia »


NiccolòAmmaniti, « Addio all'infanzia »


Tratto da: Massimo e Niccolò Ammaniti, Nel nome del figlio, Milano, 2010, pp. 21-32


Michele entrò in camera di suo fratello Filippo. In mano stringeva un manico di scopa[1] spezzato. Come prima cosa prese a bastonate[2] un po' tutti i mobili della stanza. Poi salì in piedi sulla vecchia poltrona di pelle vicino alla finestra.
         « Pippo, Pippo, guarda che ho inventato! » disse.
         Filippo stava sdraiato sul letto a leggere per la centesima volta Asterix e i Corsi.
         « Che vuoi? »
         « Ho fatto un'invenzione nuova. Vieni a vedere. »
         Michele inventava di tutto: un frullatore[3] che funzionava da ventilatore, una scatola di scarpe con dentro un kit di sopravvivenza nel caso in cui uno si fosse perso in bagno o nella cucina, una slitta di stracci[4] con cui aveva rotto la vetrata del corridoio e uno spara-batterie fatto con un tubo dell'acqua con cui aveva quasi fatto secca[5] sua sorella Roberta.
         Michele aveva dieci anni e Filippo dodici.
         « Ho inventato un telecomando. Un telecomando per la televisione. »   [...]
         « Vieni, vieni » lo pregò Michele con la sua voce lamentosa.
         Afferò per una manica il fratello e lo trascinò a forza in salotto.
         « Guarda! »
         Allungò un braccio e con la mazza colpì il televisore un paio di volte facendo un baccano[6] infernale. Alla terza botta, finalmente, centrò il pulsante di accensione. La tele si illuminò.   [...]
         « Guarda! »
         Colpì ancora la grossa pulsantiera dei canali. Primo, secondo, reti private.
         « È un telecomando. »
         « Come, è un telecomando? »
         « Sì, è un telecomando di legno » disse Michele mentre un sorriso che andava da un orecchio all'altro gli deformava la faccia. Si aggiustò gli occhiali di ferro sul naso e si rimise su la frangetta.
         « Com'è questa invenzione? » chiese a Filippo.
         Il fratello prese il manico della scopa si sedette anche lui a tavola e assestò[7] un paio di colpi all'apparecchio facendolo vacillare.
         Sì, si riusciva a cambiare. Si poteva mangiare e comodamente cambiare canale.
         Suo fratello era un genio.
         « Molto buona. Sai che facciamo? La regaliamo a papà questa sera. »
         « Va bene. Però gli dici che l'ho inventata io. »
         « D'accordo. »
         Il padre di Michele e Filippo, il signor Mario D'Antoni, non si vedeva spesso a casa in quel periodo. Aveva da poco aperto con un suo amico un'agenzia di viaggi e tornava la sera distrutto e spesso di malumore. Gli affari non andavano bene.
         Ma quella era una giornata particolare e il signor D'Antoni sarebbe stato conciliante.
         Era sabato.
         E il sabato alla tele c'era « Sandokan e i pirati della Malesia». Filippo contava i giorni tra una puntata e l'altra.
         Per cena si riunì tutta la famiglia.   [...]
         Filippo era molto eccitato e contento, anche perché il giorno dopo, domenica, era in programma una gita in campagna.   [...]
         Entrò la madre di Filippo con una zuppiera[8] di pasta tra le mani. La posò al centro della tavola.   [...]
         « Papà. Papà. Abbiamo un regalo per te » disse improvvisamente Michele con la bocca piena.
         Il bambino si alzò e tornò poco dopo con il manico di scopa avvolto nella carta da pacchi. Si sedette.
         « Tieni .»
         « Che cos'è? » fece il padre poco convinto. C'era il telegiornale.
         « Apri! »
         Il signor D'Antoni strappò rapidamente la carta e tirò fuori il manico di scopa. Poi lo poggiò contro il muro e, riprendendo a guardare il televisore, disse:
         « È un bellissimo regalo, ma ora mangia la pasta perché se no si raffredda. E poi non ti alzare da tavola. »
         « Guarda papà! »
         Michele scese di nuovo dalla sedia e corse dal padre.
         « Ho detto di non alzarti da tavola. Cristo! »
         Michele afferò con due mani il manico. Lo portò sopra la testa, si alzò in punta di piedi e prese la mira.
         E poi colpì.
         « Guard... » la parola gli si ruppe[9] in bocca.
         Non colpì il televisore.
         Era troppo lontano e Michele era troppo in basso. Colpì la tavola. Il manico della scopa come una mannaia si abbatté sul centro della tavola.
         La zuppiera con la pasta alla Sandokan si aprì in due spargendo[10] gli spaghetti sulla tovaglia. Il bicchiere di sua sorella Roberta schizzò in aria in mille pezzi. La bottiglia dell'olio rotolò fino al bordo del tavolo e poi precipitò sulla camicia di suo padre.
         Ci fu un attimo di silenzio. Nella stanza tutto sembrava essersi fermato.   [...]
         « Micheleeeee! » urlò Mario D'Antoni.   [...]
         È morto. Mio fratello è morto, pensò Filippo.
         Si sentiva vagamente colpevole, mortificato, per quello che aveva fatto suo fratello. Lui non c'entrava niente se suo fratello era un cretino, ma nonostante questo aveva dentro qualcosa simile alla colpa.
         È colpa mia. Gliel'ho detto io, si rimproverò.   [...]
         Filippo si avvicinò al fratello e cercò di consolarlo. Ma Michele aveva attaccato con uno di quei pianti diluviali che non terminavano mai.
         « Dai Michi, smettila. È solo che hai sbagliato il colpo... Ma il telecomando è mitico. »
         Gli faceva pena suo fratello. Non ne combinava mai una giusta. Aveva delle intuizioni geniali che finivano sempre in un guaio. E questo era proprio bello grosso.
         « Io sono stanco. Non ce la faccio più. Lavoro come uno schiavo. Voi mi volete far morire... Questi due mi faranno venire un infarto... Non imparano niente » continuò affranto il signor D'Antoni.
         Perché mi ci mette dentro sempre anche me quando si arrabbia con Michele? Io cosa c'entro? pensò Filippo.
         Voleva chiederglielo ma non era il caso. Era meglio stare zitto e aspettare che la bufera passasse.   [...]
         « Ma io che c'entro? »
         « Sei grande. Non sei più un bambino. Ti devi occupare di tuo fratello. Se lui fa delle stupidaggini, tu devi dirgli di non farle. Hai capito? »
         « Ogni volta, alla fine, è colpa mia. È sempre colpa mia. » disse Filippo piangendo.
         Il pianto era arrivato e con il pianto la rabbia. Rabbia verso suo padre che non capiva. Che ogni volta non capiva. Che ogni volta lo incolpava ingiustamente.
         Perché? Perché?
         Sentì dentro una strana voglia. Una voglia perfida di riprendere il bastone e incominciare a menare colpi sul tavolo, sul televisore fino a farlo esplodere. Su tutto. A forza ricacciò dentro le lacrime.
         « Basta! Vai in camera tua! » urlò il signor D'Antoni. Si girò, alzò il volume del televisore e si mise a guardarlo.   [...]
         « Volevo dirvi una cosa. Io domani in campagna non ci vengo » disse Filippo ad alta voce.   [...]
         « E chi se ne importa. »
         Filippo sentì qualcosa dentro spezzarsi. Un dolore terribile.
         Alla sua famiglia non importava niente di lui. Niente.
         E chi se ne importa.
         A suo padre non fregava niente se lui c'era o non c'era in campagna. E così a sua sorella e a sua madre.
         Uscì di corsa dalla sala da pranzo. Andò nella sua stanza. Ci si chiuse dentro.    [...]
         Michele aveva smesso di piangere e stava sul letto a guardare suo fratello.   [...]
         Filippo si sedette accanto al fratello e lo guardò.
         « Domani non ci andiamo in campagna. Va bene? Ce ne rimaniamo a casa. Io e te soli. Ci vadano loro in campagna. Tanto a me non me ne frega niente... »
         « Neanche a me » concordò Michele. Filippo gli mise un braccio intorno al collo.
         Forse non sarebbero nemmeno usciti dalla stanza. Lì dentro avevano tutto. Acqua, biscotti. Si sarebbero chiusi dentro per una settimana. Lui e suo fratello. Quella non era una stanza ma un bunker.   [...]
         Ripensò ancora una volta a suo padre, a come lo aveva incolpato ingiustamente, ai suoi occhi duri e piatti. Gli faceva paura in quei momenti e di più gli faceva paura il fatto che lui non riusciva a non abbassare il capo[11] e alla fine gli obbediva sempre. Si sentì indifeso. Indifeso come mai prima.   [...]
         Si addormentò.
         Era ancora presto quando il signor D'Antoni entrò nella loro stanza.   [...]
         « Forza dormiglioni. È ora di svegliarsi. »   [...]
         Filippo non si mosse. Rimase così con la faccia contro il muro.
         Allora è tutto dimenticato. Tutto. Il colpo in mezzo al tavolo, la camicia, la zuppiera di Vietri. Tutto è finito. Com'è possibile? Una notte di sonno e tutto è finito. Tutto cancellato, pensò.
         E chi se ne importa, gli rimbombò nel cervello.
         No. Niente è cancellato. Non è giusto. Non è giusto.
         Che cosa non è giusto?
         Non è giusto incolpare chi non c'entra niente. Non è giusto dimenticare. Non è giusto che arrivi la mattina come se niente fosse successo. Come se non avessimo mai litigato.  Come se tutto fosse normale.
         Filippo si acciambellò[12] di più e decise che lui in campagna non ci sarebbe andato. Lo potevano uccidere, ma in campagna lui non ci andava, né ora né mai più.
         È deciso.
         Si sentì forte.   [...]
         « Allora, sei sicuro che non vuoi venire? »
         Era suo padre. Filippo non si mosse. Non si girò nemmeno.
         « No. Non vengo. »
         « Sei sicuro? »
         « Sì. »
         « Fai come ti pare. »
         Sentì i passi di suo padre che usciva. La porta dell'ascensore che si apriva. [...]
         Filippo ascoltò il rumore dell'ascensore che scendeva. Smontò dal letto, andò in corridoio. La porta era chiusa. Rientrò nella sua stanza. Si infilò le pantofole. Aprì la porta-finestra che dava sul terrazzino. Uscì nel freddo. Sotto c'era la sua famiglia vicino alla macchina. Stavano caricando i bagagli. Michele alzò lo sguardo e lo vide. Sollevò un braccio e lo salutò. Filippo gli fece un segno. Poi tutti salirono, le porte si chiusero. Il rumore del motore che si avviava. La macchina partì.
         Filippo rimase un altro po' a guardare la strada deserta poi rientrò. Chiuse la porta. La casa era silenziosa più che durante la notte. Filippo fece un bel respiro e decise di andare a vedere la televisione.
         Quella era la prima volta che rimaneva una domenica da solo.



[1] Le balais
[2] Dare dei colpi con un bastone (qui con la scopa)
[3] Un mixeur
[4] Chiffons
[5] Aveva quasi ammazzato
[6] Rumore
[7] Diede (dare, pass. remoto)
[8] Soupière
[9] Vb rompersi, pass. remoto – se casser
[10] Vb spargere - répandre
[11] La testa
[12] Vb acciambellarsi – se mettre en boule



BIOGRAFIA UFFICIALE
Nasce a Roma il 25 settembre 1966. Il suo primo romanzo, "Branchie", esce nel 1994 per la casa editrice Ediesse, e verrà poi ripubblicato nel 1997 per Einaudi Stile libero. Assieme al padre Massimo, docente di Psicopatologia generale e dell'età evolutiva presso La Sapienza di Roma, ha pubblicato "Nel nome del figlio", un saggio sui problemi dell'adolescenza.
Nel 1996 pubblica per Mondadori la raccolta di racconti "Fango"; tre anni dopo esce, sempre per Mondadori, "Ti prendo e ti porto via", ma è il suo romanzo successivo, "Io non ho paura", Einaudi Stile libero 2001, a farlo conoscere al grande pubblico con il quale ha vinto il Premio Viareggio, Niccolò è l'autore più giovane ad aver vinto questo storico premio.
Nel 2006 ha pubblicato per Mondadori il romanzo "Come Dio comanda", che compone, insieme a "Io non ho paura", un ideale dittico sul rapporto padre-figlio e vincitore del premio Strega.
Nel 2009 pubblica il romanzo "Che la festa cominci" e l'anno successivo "Io e te", nel 2012 "Il momento è delicato" tutti per Einaudi stile libero.
Dai suoi libri sono stati tratti al momento quattro film: "L’ultimo capodanno" (di Marco Risi, 1998); "Branchie" (di Francesco Ranieri Martinotti, 1999); "Io non ho paura" e "Come Dio comanda" (entrambi diretti da Gabriele Salvatores, 2003 e 2008). "Io e te" (di Bernardo Bertolucci, 2012). I suoi libri sono stati tradotti in 44 Paesi.

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