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Letteratura italiana - La coscienza di Zeno

È un bellissimo libro, un vero capolavoro della letteratura italiana del ‘900, un testo a volte surreale, sicuramente divertente e di fondo persino drammatico.


La coscienza di Zeno è il diario fittizio di Zeno Cosini, pubblicato per vendetta dal suo psicanalista il Dottor S. che gli aveva consigliato di scrivere un diario a scopo terapeutico per liberarsi dai suoi tanti problemi. Zeno interromperà la terapia sul più bello e così il Dottor S. contrariato deciderà di pubblicarne il contenuto per ripicca.

Uno dei capitoli centrali del libro narra di come Zeno abbia cominciato a fumare per far un dispetto a suo padre (che sciocchezza o meglio che cazzata) e di come finisica per trascorrere il resto della sua esistenza nel tentativo di smettere di fumare. Riponendo un’importanza rituale nell’ultima sigaretta.

Eh sì, perché mettiamoci nei suoi panni, se anche noi sapessimo che stiamo per fare qualcosa che amiamo per l’ultima volta, sicuramente ci metteremmo tutto noi stessi e tenteremo di godercela fino in fondo. Come se foste in pizzeria e doveste ordinare l’ultima pizza della vostra vita o in pasticceria, l’ultimo babà!

Fatto sta’ che Zeno scoprì ben presto che il gusto dell’ultima sigaretta era ben più dolce di qualsiasi altro e così ogni sigaretta divenne l’ultima, legata a incredibili ricordi e attimi indimenticabili.


In realtà niente di male, se pensassimo che tutto ciò che facciamo lo facciamo per l’ultima volta forse ci godremo di più la vita!

Zeno nel libro è diviso tra l’idea che il fumo sia la causa di tutti i suoi mali e quella che invece vede il suo stesso essere e il suo carattere come problema maggiore.

“Smettere di fumare è facilissimo. Io l’ho fatto centinaia di volte” Mark Twain

Questa frase sembra essere il motto della vita di Zeno.

La coscienza di Zeno, scritto da Italo Svevo, è uno dei romanzi più belli della letteratura italiana. Anche se un po’ lunghetto, si legge tutto d’un fiato. 

Il personaggio di Zeno, un ricco triestino, si trova in perenne equilibrio tra la voglia guarire la sua anima, il fallimento e la malattia.

Per liberarsi dal vizio del fumo Zeno inizia delle sedute di psicoanalisi, il suo analista, il Dottor S. gli consiglia di scrivere un diario.


Il libro è proprio il diario di memorie narrato in prima persona dal protagonista che ci racconta la sua vita per episodi sparsi, saltando da un momento all’altro, come se in ogni capitolo aprisse una finestra su un diverso momento della sua vita, fino alla brusca interruzione finale. 

Il libro è stato pubblicato da Italo Svevo nel 1923 e racconta l’analisi di Zeno, un personaggio che si sente malato e che è alla ricerca di una guarigione miracolosa dal suo malessere facendo anche dei tentativi assurdi.

Nella prefazione il piscoanalista, il Dottr S., dichiara di voler pubblicare per vendetta alcune memorie di un suo paziente, Zeno appunto, che si è sottratto in malo modo alle sue cure.

 

Puoi trovare l'audio libro anche qui:

AUDIOLIBRO




Ecco i riassunti dei vari capitoli con alcune delle citazioni salienti degli stessi:

Capitolo 1 - Prefazione:

Il primo capitolo del romanzo "La coscienza di Zeno" consiste nella prefazione scritta dal dottor S., lo psicanalista, di scuola freudiana, che ha avuto in cura Zeno, che in poche righe spiega di aver deciso di divulgare le memorie del suo paziente per vendetta, a seguito dell’abbandono della terapia da parte dello stesso; a sua detta senza motivo e proprio mentre la terapia sembrava iniziare a funzionare.

 


…..

“Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.

Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di sé stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!...

Dottor S.”

 

 

Capitolo 2 - Preambolo:

Da questo capitolo in poi la narrazione è fatta da Zeno che è dunque sia il protagonista che il narratore.

Il secondo capitolo del romanzo rappresenta l’introduzione del protagonista in cui Zeno raccoglie l’invito del suo psicanalista, Dott. S. di scrivere la sua autobiografia per supportare la sua terapia psicoanalitica. Facendo così riaffiorare i ricordi remoti e i passi significativi della sua vita. Non si può parlare di un vero diario in quanto la narrazione è in realtà un excursus rivolto al passato che ripercorre i momenti salienti della vita del protagonista che hanno causato la sua malattia dell’anima.

La malattia che lo affligge è l’inettitudine che qui assume le peculiarità di una patologia psicologica, una nevrosi che si manifesta attraverso il senso di insoddisfazione costante, l’angoscia, la paura incontrollabile, il conflitto costante con l’ambiente che lo circonda.



“Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.

Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.

Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.

Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento fini nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.

Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!

Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno - fantolino! - si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi - fantolino! - sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.

Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.”

 

Capitolo 3 – Il fumo

Zeno inizia il suo diario partendo dal vizio del fumo che mette in evidenza la sua nevrosi basata sul continuo rinviare ciò che si ripromette di fare.

Il protagonista si racconta in gioventù come un benestante perdigiorno, diviso tra una serie di buoni propositi e una pigrizia infinita che finisce per fare di ogni buon proposito un progetto rinviato e disatteso. Zeno rimanda, aspetta, si presenta indeciso e si descrive come un fumatore incallito.

Il fumo fa parte della sua vita sin dalla giovanissima età, ogni tentativo più o meno convinto di smettere sfocia in un insuccesso, al punto che i tentativi di liberarsi di questo vizio finiscono per permeare la sua vita in un susseguio infinito di “ultime sigarette”. Zeno si ripromette che ogni sigaretta sarà l’ultima.

 Il protagonista, fumatore incallito, fin da giovanissima età, racconta del proprio pigro dipendere dal vizio del fumo e dei suoi ricorrenti, quanto inutili, tentativi di liberarsene. Ogni sigaretta, si ripromette Zeno sarà l’ultima e permeate di questo suo buon proposito sono le pagine stesse del suo diario, riempite con la scritta US “ultima sigaretta” seguita da una data o un avvenimento.

I temi fondamentali del romanzo finiscono per emergere proprio in questo primo capitolo: la continua irresolutezza, la malattia della volontà, lo smascheramento degli artifici dell’inconscio, l’inettitudine, l’autoironia.


“Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine [...] Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:

 

- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!

 

Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.

 

Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri.

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.

La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent’anni non ricorderei gran cosa se non l’avessi allora descritta ad un medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l’aria.

“Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute.”

Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste. (p. 10)

Le mie giornate finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette.... che non sono le ultime. (pp. 13-14)

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. (p. 14)

Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano. (p. 15)

Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna. (p. 16)

La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. (p. 16)

L'amore sano è quello che abbraccia una donna sola e intera, compreso il suo carattere e la sua intelligenza. (Zeno; p. 20)

Ma fumai subito l'ultima sigaretta; e non era la mezzanotte, ma le ventitré, un'ora impossibile per un'ultima sigaretta. (p. 28)

Capitolo 4 – La morte del padre

Il capitolo “La morte del padre” racconta del rapporto conflittuale con il padre, ricco di silenzi e fraintendimenti. Il racconto è concentrato sugli ultimi di giorni di vita del padre che non ha mai stimato il figlio.

Zeno si divide tra l’amore naturale di un figlio e l’odio per il padre che per lui incarna quella maturità e quelle convenzioni borghesi a cui allo stesso tempo vorrebbe adeguarsi ma che non riesce a seguire e realizzare.

“Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più ed io poi, a trent'anni, ero un uomo finito. Anch'io! M'accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt'altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all'altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c'era più una dimane ove collocare il proposito. Tante volte, quando ci penso, resto stupito della stranezza per cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia prodotta alla morte di mio padre e non prima. Sono in complesso cose recenti e per ricordare il mio enorme dolore e ogni particolare della sventura non ho certo bisogno di sognare come vogliono i signori dell'analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino alla sua morte io non vissi per mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo senz'offenderlo, lo evitai. All'Università tutti lo conoscevano col nomignolo ch'io gli diedi di vecchio Silva manda denari. Ci volle la malattia per legarmi a lui; la malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il medico lo diede subito per spacciato. Quand'ero a Trieste ci vedevamo sì e no per un'oretta al giorno, al massimo. Mai non fummo tanto e sì a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari l'avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato. Era difficile di trovarsi insieme anche perché fra me e lui, intellettualmente non c'era nulla di comune. Guardandoci, avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento, reso in lui più acido da una viva paterna ansietà per il mio avvenire; in me, invece, tutto indulgenza, sicuro com'ero che le sue debolezze oramai erano prive di conseguenze, tant'è vero ch'io le attribuivo in parte all'età. Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, - a me sembra, - troppo presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l'appoggio di una convinzione scientifica, egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva - e qui con fede scientifica sicura - ad aumentare la mia diffidenza per lui.”

Adesso che invecchio e m'avvicino al tipo del patriarca, anch'io sento che un'immoralità predicata è più punibile di un'azione immorale. Si arriva all'assassinio per amore o per odio; alla propaganda dell'assassinio solo per malvagità. (p. 41)

Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione. (p. 42)

Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz'obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? (p. 56)

Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. (p. 67)

È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta — raramente — non si può fare a meno. (p. 74)

Capitolo 5 – La storia del mio matrimonio

Il capitolo “La storia del mio matrimonio” parla del rapporto con le donne, un rapporto conflittuale e immaturo.

Zeno donnaiolo, scapestrato ed indeciso non si innamora ma decide di mettere la testa a posto e a questo fine inizia a  frequentare le tre sorelle Malfrenti, figlie di un uomo d’affari triestino. Zeno si innamora della primogenita Ada, la più bella, alla quale goffamente si dichiara.

Ada, interessata al più disinvolto Guido Speier, lo respinge per cui Zeno decide di dichiararsi alla secondogenita Alberta, la quale a sua volta lo rifiuta. Finisce quindi per sposare quella che gli piace di meno, Augusta, la più brutta delle tre sorelle strabica da un occhio.

Un matrimonio dominato da un affetto tiepido ma sincero, senza passione e trasporto e una vita coniugale tranquilla e ripetitiva seppur serena.

Augusta diventa quasi una mamma per Zeno accudendolo e amandolo senza ricevere gli stessi sentimenti in cambio.  Zeno proverà comunque per la moglie un tenero affetto per tutta la vita.

“Nella mente di un giovine di famiglia borghese il concetto di vita umana s'associa a quello della carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso. La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell'onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore! M'aspettavo perciò anch'io di divenire e disfarmi come Napoleone e l'onda.

 

La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz'alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m'invidiano, ma orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa stima e credo che neppur io, dacché son giunto all'età della ragione, abbia mutato di molto il concetto che feci di me stesso.

 

Può perciò essere che l'idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell'unica nota. Chi non l'ha ancora sperimentato crede il matrimonio più importante di quanto non sia. La compagna che si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch'è un'illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. Infatti si vive poi uno accanto all'altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un'invidia per chi a noi è superiore.

 

Il bello si è che la mia avventura matrimoniale esordì con la conoscenza del mio futuro suocero e con l'amicizia e l'ammirazione che gli dedicai prima che avessi saputo ch'egli era il padre di ragazze da marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso la mèta ch'io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche nel destino.

 

Il desiderio di novità che c'era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch'era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l'amicizia. Io ero abbastanza còlto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch'io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m'incantavo a guardarlo, invidiandolo.

 

Il Malfenti aveva allora circa cinquant'anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m'attaccai a lui per arricchire.”

Non v'è niente di più difficile a questo mondo che di fare un matrimonio come si vuole. (p. 96)

È libertà completa quella di poter fare ciò che si vuole a patto di fare anche qualche cosa che piaccia meno. La vera schiavitù è la condanna all'astensione: Tantalo e non Ercole. (p. 126)

— Chissà se l'amo?

È un dubbio che m'accompagnò per tutta la vita e oggidì posso pensare che l'amore accompagnato da tanto dubbio sia il vero amore. (p. 172)

Ma uccidere e sia pure a tradimento, è cosa più virile che danneggiare un amico riferendo una sua confidenza. (p. 185)

 

Capitolo 6 – La moglie e l’amante

Per colmare la mancanza di un amore vero e per conformarsi ai dettami dell’epoca Zeno si fa l’amante.

La povera signorina Carla Greco inizialmente insicura e sottomessa, gli rimarrà accanto e fedele fino a che stanca dell’indecisione e dell’inettitudine del protagonista sposerà il suo maestro di canto. Cercato e pagato per lei proprio da Zeno.

Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso, e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me s'era confidato. Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano. (p. 191)

La salute non analizza sé stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi. (p. 198)

La religione di cui Augusta abbisognava non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi. Un inchino e l'immediato ritorno alla vita! Nulla di più. Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto. Se avessi avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella. (p. 206)

Il Copler, però, non faceva bene ad analizzarmi. Spiegare a qualcuno come è fatto, è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera. (p. 211)

Io credo che l'accordo in un giudizio critico unisca intimamente. (p. 230)

Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia. (p. 245)

Ma del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve. (p. 252)

Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso. Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava. Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza. Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro. (pp. 262-263)

È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza. Non era più possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato e rivivere la giornata, tanta simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente. Ciò non era più possibile. Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene. Io subito lo domai! (p. 304)

Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie. (p. 307)

Capitolo 7 – Storia di una associazione commerciale

Il settimo capitolo racconta dell'impresa commerciale portata avanti da Zeno con Guido Speier, marito di Ada, e del rapporto con il cognato nei confronti del quale Zeno prova forte antipatia e un sentimento di rivalsa (sin da quando la sua prima scelta, la bella Ada, gli aveva preferito come marito proprio lo Speier).

I due cognati sono estremamente diversi, Guido è una persona espansiva e brillante, ma anche superficiale e incapace, Zeno è inconcludente, insicuro e passivo.

L’azienda va in completa rovina, sia a causa dell’inadeguatezza e la disattenzione di Guido sia per la svogliatezza e l’incertezza di Zeno.

Guido simula un suicidio, pensando così di salvare il proprio onore e di riuscire ad avere un ulteriore prestito dalla famiglia della moglie. Ma la simulazione non va a buon fine ed egli sbagliando la dose di sonnifero finirà per uccidersi sul serio.

Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l'avarizia. (p. 348)

Quaggiù quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo. (p. 354)

Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione. (l'agente; p. 357)

Le avventure più gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa [...]. (p. 367)

Aveva l'occhio ingrandito; aveva la faccina magra; la sua voce s'era trasformata ed anche il carattere in quell'affettuosità che non era sua, ma io attribuivo tutto ciò alla doppia maternità e alla debolezza. Insomma, io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: Malattia!

Il giorno appresso l'ostetrico, che curava Ada, domandò l'assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch'io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii. (p. 387)

Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta. La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo. Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre. Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark.

Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch'egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all'altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un'estremità — quella di Basedow — stanno tutti coloro ch'esasperano e consumano la vita in grandi desiderii, ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall'altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch'esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costituire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta così, col gozzo ad uno dei suoi capi e l'edema all'altro, e non c'è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l'umanità, la salute assoluta manca. (pp. 387-389)

Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi. Bisogna moversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri. (p. 389)

Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d'acqua, obbligando così la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate. Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere. (p. 399)

La vita non è né brutta né bella, ma è originale! (Zeno; p. 405)

Mi pareva di aver sciolto il problema angoscioso. Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora. La bontà era la luce che a sprazzi e ad istanti illuminava l'oscuro animo umano. Occorreva la fiaccola bruciante per dare la luce (nell'animo mio c'era stata e prima o poi sarebbe sicuramente anche ritornata) e l'essere pensante a quella luce poteva scegliere la direzione per moversi poi nell'oscurità. Si poteva perciò manifestarsi buoni, tanto buoni, sempre buoni, e questo era l'importante. Quando la luce sarebbe ritornata non avrebbe sorpreso e non avrebbe abbacinato. Ci avrei soffiato su per spegnerla prima, visto ch'io non ne avevo bisogno. Perché io avrei saputo conservare il proposito, cioè la direzione. (p. 410)

È una delle grandi difficoltà della vita d'indovinare ciò che una donna vuole. (p. 420)

Nella sua grande emozione ella quasi s'appoggiava a me, come nel sogno. Ma io m'attenni alla sue parole. Mi domandava un affetto fraterno; l'impegno di amore che pensavo mi legasse a lei si trasformava così in un altro suo diritto, epperò le promisi subito di aiutare Guido, di aiutare lei, di fare quello che avrebbe voluto. Se fossi stato più sereno avrei dovuto parlare della mia insufficienza al compito ch'essa m'assegnava, ma avrei distrutta tutta l'indimenticabile emozione di quel momento. Del resto era tanto commosso che non potevo sentire la mia insufficienza. In quel momento pensavo che non esistessero affatto per nessuno delle insufficienze. Anche quella di Guido poteva essere soffiata via con alcune parole che gli dessero il necessario entusiasmo.

Ada m'accompagnò sul pianerottolo e restò li, appoggiata alla ringhiera, a vedermi scendere. Così aveva fatto sempre Carla, ma era strano lo facesse Ada che amava Guido, ed io gliene fui tanto grato che, prima di passare alla seconda branca della scala, alzai anche una volta il capo per vederla e salutarla. Così si faceva in amore ma, si vedeva, anche quando si trattava di amore fraterno. (p. 424)

Sapeva abbastanza di contabilità per intendermi e invece non ci arrivava perché il desiderio gl'impediva di adattarsi all'evidenza. (p. 426)

La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s'affrettano di nascere. Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, viene ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all'ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbe avuto diritto ad una parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo? È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi. L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore. (p. 451)

La verità la ebbi dal dottor Paoli in cui m'imbattei sulle scale. Ne ebbi uno sconvolgimento che quasi mi fece precipitare. Guido, dacché vivevo con lui, era divenuto per me un personaggio di grande importanza. Finché era vivo lo vedevo in una data luce ch'era la luce di parte delle mie giornale. Morendo, quella luce si modificava in modo come se improvvisamente fosse passata traverso un prisma. Era proprio questo che m'abbacinava. Egli aveva sbagliato, ma io subito vidi ch'essendo morto, dei suoi errori non restava niente.

Secondo me era un imbecille quel buffone che in un cimitero coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero in quel paese i peccatori. I morti non sono mai stati peccatori. Guido era ormai un puro! La morte l'aveva purificato. (pp. 473-474)

Quando però i miei occhi si chiusero, nell'oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere. (p. 488)

Capitolo 8 - Psico-analisi (Conclusione)

Alla fine del libro Zeno decide di sospendere la terapia, rifiutando e condannando la psicoterapia che invece di arrecargli beneficio ha peggiorato la sua situazione.

La pagina che chiude il romanzo è famosa in quanto anticipatrice della moderna visione della fine del mondo per mano umana.  La scena è apocalittica: l’uomo in possesso di un “esplosivo incomparabile”, che colloca al centro della terra, finirà per portare la terra alla catastrofe. “Ci sarà un’esplosione enorme e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

“Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.

La vita attuale è inquinata alle radici. L'uomo s'è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l'aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!

Ma non è questo, non è questo soltanto.

Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell'emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s'interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s'ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l'occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c'è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l'uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l'ordigno che crea la malattia con l'abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattia e ammalati.

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”








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