Le piccole virtù di Natalia Ginzburg (livello avanzato-
C1/C2)
Natalia Ginzburg, nata Levi (pronuncia [nataˈliːa ˈɡinʦburɡ])
(Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 8 ottobre 1991), è stata una scrittrice,
drammaturga, traduttrice e politica italiana, figura di primo piano della
letteratura italiana del Novecento.
Natalia Ginzburg (nata con il nome Natalia Levi) nasce a
Palermo il 14 luglio 1916. Il padre è il celebre scienziato ebreo Giuseppe Levi
e la madre è la milanese Lidia Tanzi. Il padre, oltre a essere un grande
scienziato (tra i suoi allievi illustri ricordiamo Rita Levi-Montalcini), è
anche un professore universitario che condivide gli ideali antifascisti. Per la
loro opposizione al regime fascista, Giuseppe Levi e i suoi tre figli maschi,
vengono arrestati e processati.
Le piccole virtù è una raccolta di racconti di Natalia
Ginzburg, pubblicata per la prima volta dall'editore Einaudi nel 1962. Prende
il titolo da uno dei racconti in essa contenuti.
«In ogni pagina di questo libro c’è il modo di essere donna
[di Natalia Ginzburg]: un modo spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco,
in mezzo ai dolori e alle gioie della vita… Tra i capitoli del volume si
ricorda Ritratto d’un amico, certo la più bella cosa che sia stata scritta
sull’uomo Cesare Pavese. E le pagine scritte subito dopo la guerra, che
riportano con una forza più che mai struggente il senso dell’esperienza d’anni
terribili (e sanno pur farlo, serbando, come Le scarpe rotte, un quasi
miracoloso senso del comico). Poi, le prove (come Silenzio e Le piccole virtù)
d’una Natalia Ginzburg moralista, dove una partecipazione acuta ai mali del
secolo sembra nascere dalla matrice d’un calore familiare. E soprattutto,
perfetto capitolo d’una autobiografia in chiave obiettiva e ironica, Lui e io,
in cui la contrapposizione dei caratteri si trasforma, da spunto di commedia,
nel più affettuoso poema della vita coniugale».
Italo Calvino
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Non opprimere i figli con l’idea della scuola
Al rendimento scolastico dei nostri figli, siamo soliti dare
un’importanza che è del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto
per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo
indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci
accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano
delle soddisfazioni al nostro orgoglio.
Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come
noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento
costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi
lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure
li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti,
ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli
correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti,
studiamo con loro le lezioni.
In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per
un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal
principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove
noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se
là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere
che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser
continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e
la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi.
I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo
con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come
essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o
insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. È falso che essi abbiano il
dovere, di fronte a noi, d’esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio
del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi è puramente quello, visto che
li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti.
Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella
scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio
della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di
rimproverarli, di mostrarci offesi nell’orgoglio, frustrati d’una
soddisfazione.
Se il meglio del loro ingegno non hanno l’aria di volerlo
spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una
penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse
quello che a noi sembra ozio è in realtà fantasticheria e riflessione, che,
domani, daranno frutti.
Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra
che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o
scatenati in un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo
sapere se veramente si tratti di spreco dell’energia e dell’impegno, o se anche
questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché
infinite sono le possibilità dello spirito.
Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal
panico dell’insuccesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di
vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare
la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidarne la limpidità e la
pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha
addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati.
Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti.
Siamo per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa
ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse è
possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani.
Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei
nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita, né oppresso dalla paura di
vivere, ma semplicemente in stato d’attesa, intento a preparare se stesso alla
propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta
espressione del suo amore per la vita?
Le scarpe rotte
Io ho le scarpe rotte e l’amica con la quale vivo in questo
momento ha le scarpe rotte anche lei. Stando insieme parliamo spesso di scarpe.
Se le parlo del tempo in cui sarò una vecchia scrittrice famosa, lei subito mi
chiede: «Che scarpe avrai?» Allora le dico che avrò delle scarpe di camoscio
verde, con una gran fibbia d’oro da un lato.
Io appartengo a una famiglia dove tutti hanno scarpe solide
e sane. Mia madre anzi ha dovuto far fare un armadietto apposta per tenerci le
scarpe, tante paia ne aveva. Quando torno fra loro, levano alte grida di sdegno
e di dolore alla vista delle mie scarpe. Ma io so che anche con le scarpe rotte
si può vivere. Nel periodo tedesco ero sola qui a Roma, e non avevo che un solo
paio di scarpe. Se le avessi date al calzolaio avrei dovuto stare due o tre
giorni a letto, e questo non mi era possibile. Così continuai a portarle, e per
giunta pioveva, le sentivo sfasciarsi lentamente, farsi molli ed informi, e
sentivo il freddo del selciato sotto le piante dei piedi. È per questo che
anche ora ho sempre le scarpe rotte, perché mi ricordo di quelle e non mi
sembrano poi tanto rotte al confronto, e se ho del denaro preferisco spenderlo
altrimenti, perché le scarpe non mi appaiono più come qualcosa di molto
essenziale. Ero stata viziata dalla vita prima, sempre circondata da un affetto
tenero e vigile, ma quell’anno qui a Roma fui sola per la prima volta, e per
questo Roma mi è cara, sebbene carica di storia per me, carica di ricordi
angosciosi, poche ore dolci. Anche la mia amica ha le scarpe rotte, e per
questo stiamo bene insieme.
La mia amica non ha nessuno che la rimproveri per le scarpe
che porta, ha soltanto un fratello che vive in campagna e gira con degli
stivali da cacciatore. Lei e io sappiamo quello che succede quando piove, e le
gambe sono nude e bagnate e nelle scarpe entra l’acqua, e allora c’è quel
piccolo rumore a ogni passo, quella specie di sciacquettìo.
La mia amica ha un viso pallido e maschio, e fuma in un
bocchino nero. Quando la vidi per la prima volta, seduta a un tavolo, con gli
occhiali cerchiati di tartaruga e il suo viso misterioso e sdegnoso, col
bocchino nero fra i denti, pensai che pareva un generale cinese. Allora non lo
sapevo che aveva le scarpe rotte. Lo seppi più tardi.
Noi ci conosciamo soltanto da pochi mesi, ma è come se
fossero tanti anni. La mia amica non ha figli, io invece ho dei figli e per lei
questo è strano. Non li ha mai veduti se non in fotografia, perché stanno in
provincia con mia madre, e anche questo fra noi è stranissimo, che lei non
abbia mai veduto i miei figli. In un certo senso lei non ha problemi, può
cedere alla tentazione di buttar la vita ai cani, io invece non posso. I miei
figli dunque vivono con mia madre, e non hanno le scarpe rotte finora. Ma come
saranno da uomini? Voglio dire: che scarpe avranno da uomini? Quale via
sceglieranno per i loro passi? Decideranno di escludere dai loro desideri tutto
quel che è piacevole ma non necessario, o affermeranno che ogni cosa è
necessaria e che l’uomo ha il diritto di avere ai piedi delle scarpe solide e
sane?
Con la mia amica discorriamo a lungo di questo, e di come
sarà il mondo allora, quando io sarò una vecchia scrittrice famosa, e lei
girerà per il mondo con uno zaino in spalla, come un vecchio generale cinese, e
i miei figli andranno per la loro strada, con le scarpe sane e solide ai piedi
e il passo fermo di chi non rinunzia, o con le scarpe rotte e il passo largo e
indolente di chi sa quello che non è necessario.
Qualche volta noi combiniamo dei matrimoni fra i miei figli
e i figli di suo fratello, quello che gira per la campagna con gli stivali da
cacciatore. Discorriamo così fino a notte alta, e beviamo del tè nero e amaro.
Abbiamo un materasso e un letto, e ogni sera facciamo a pari e dispari chi di
noi due deve dormire nel letto. Al mattino quando ci alziamo, le nostre scarpe
rotte ci aspettano sul tappeto.
La mia amica qualche volta dice che è stufa di lavorare, e
vorrebbe buttar la vita ai cani. Vorrebbe chiudersi in una bettola a bere tutti
i suoi risparmi, oppure mettersi a letto e non pensare più a niente, e lasciare
che vengano a levarle il gas e la luce, lasciare che tutto vada alla deriva
pian piano. Dice che lo farà quando io sarò partita. Perché la nostra vita
comune durerà poco, presto io partirò e tornerò da mia madre e dai miei figli,
in una casa dove non mi sarà permesso di portare le scarpe rotte. Mia madre si
prenderà cura di me, m’impedirà di usare degli spilli invece che dei bottoni, e
di scrivere fino a notte alta. E io a mia volta mi prenderò cura dei miei
figli, vincendo la tentazione di buttar la vita ai cani. Tornerò ad essere
grave e materna, come sempre mi avviene quando sono con loro, una persona
diversa da ora, una persona che la mia amica non conosce affatto.
Guarderò l’orologio e terrò conto del tempo, vigile ed
attenta ad ogni cosa, e baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti
e caldi, perché so che così dev’essere se appena è possibile, almeno
nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è
bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini.
Io e Lui
Lui ha sempre caldo; io sempre freddo. D’estate, quando è
veramente caldo, non fa che lamentarsi del gran caldo che ha. Si sdegna se vede
che m’infilo, la sera, un golf. Lui sa parlare bene alcune lingue; io non ne
parlo bene nessuna. Lui riesce a parlare, in qualche suo modo, anche le lingue
che non sa.
Lui ha un grande senso dell’orientamento; io nessuno. Nelle
città straniere, dopo un giorno, lui si muove leggero come una farfalla. Io mi
sperdo nella mia propria città; devo chiedere indicazioni per ritornare alla
mia propria casa. Lui odia chiedere indicazioni; quando andiamo per città sconosciute,
in automobile, non vuole che chiediamo indicazioni e mi ordina di guardare la
pianta topografica. Io non so guardare le piante topografiche, m’imbroglio su
quei cerchiolini rossi, e si arrabbia.
Lui ama il teatro, la pittura, e la musica: soprattutto la
musica. Io non capisco niente di musica, m’importa molto poco della pittura, e
m’annoio a teatro. Amo e capisco una cosa sola al mondo, ed è la poesia. Lui
ama i musei, e io ci vado con sforzo, con uno spiacevole senso di dovere e
fatica. Lui ama le biblioteche, e io le odio. Lui ama i viaggi, le città
straniere e sconosciute, i ristoranti. Io resterei sempre a casa, non mi
muoverei mai. […] A lui piacciono le tagliatelle, l’abbacchio’, le ciliege, il
vino rosso. A me piace il minestrone, il pancotto, la frittata, gli erbaggi.
Suole dirmi che non capisco niente, nelle cose da mangiare; e che sono come
certi robusti fratacchioni, che divorano zuppe di erbe nell’ombra dei loro
conventi; e lui, lui è un raffinato, dal palato sensibile. Al ristorante,
s’informa a lungo sui vini; se ne fa portare due o tre bottiglie, le osserva e
riflette, carezzandosi la barba pian piano. […] Per me, ogni attività è
sommamente difficile, faticosa, incerta. Sono molto pigra, e ho un’assoluta
necessità di oziare, se voglio concludere qualcosa, lunghe ore sdraiata sui
divani. Lui non sta mai in ozio, fa sempre qualcosa; scrive a macchina
velocissimo, con la radio accesa; quando va a riposare il pomeriggio, ha con sé
delle bozze da correggere o un libro pieno di note; vuole, nella stessa
giornata, che andiamo al cinematografo, poi a un ricevimento, poi a teatro.
Riesce a fare, e anche a farmi fare, nella stessa giornata, un mondo di cose
diverse; a incontrarsi con persone più disparate; e se io son sola, e tento di
fare come lui, non approdo a nulla, perché là dove intendevo trattenermi
mezz’ora resto bloccata tutto il pomeriggio, o perché mi sperdo e non trovo le
strade, o perché la persona più noiosa e che meno desideravo vedere mi trascina
con sé nel luogo dove meno desideravo di andare. Se gli racconto come si è
svolto un mio pomeriggio, lo trova un pomeriggio tutto sbagliato, e si diverte,
mi canzona e s’arrabbia; e dice che io, senza di lui, non son buona a niente.
[…]
Lui sa comprare, in grande quantità, bicarbonato e aspirina.
E’, qualche volta, malato, di suoi misteriosi malesseri; non sa spiegare che
cosa si sente; se ne sta a letto per un giorno, tutto ravviluppato nelle
lenzuola; non si vede che la sua barba, e la punta del suo naso rosso. Prende
allora bicarbonato e aspirina, in dosi da cavallo; e dice che io non lo posso
capire, perché io, io sto sempre bene, sono come quei fratacchioni robusti, che
si espongono senza pericolo al vento e alle intemperie; e lui invece fine e
delicato, sofferente di malattie misteriose. Poi la sera è guarito, e va in
cucina a cuocersi le tagliatelle. Era, da ragazzo, bello, magro, esile, non
aveva allora la barba, ma lunghi e morbidi baffi; e rassomigliava all’attore
Robert Donat. Era così quasi vent’anni fa, quando l’ho conosciuto; e portava,
ricordo, certi camiciotti scozzesi, di flanella, eleganti. Mi ha accompagnata,
ricordo, una sera, alla pensione dove allora abitavo; abbiamo camminato insieme
per via Nazionale. Io mi sentivo già molto vecchia, carica di esperienza e
d’errori; e lui mi sembrava un ragazzo, lontano da me mille secoli. Cosa ci
siamo detti quella sera, per via Nazionale, non lo so ricordare; niente
d’importante, suppongo; era lontana da me mille secoli l’idea che dovessimo
diventare, un giorno, marito e moglie. […] Se gli ricordo quell’antica nostra
passeggiata per via Nazionale, dice di ricordare, ma io so che mente e non
ricorda nulla; e io a volte mi chiedo se eravamo noi, quelle due persone, quasi
vent’anni fa per via Nazionale; due persone che hanno conversato così
gentilmente, urbanamente, nel sole che tramontava; che hanno parlato forse un
po’ di tutto, e di nulla; due amabili conversatori, due giovani intellettuali a
passeggio; così giovani, così educati, così distratti, così disposti a dare
l’uno dell’altra un giudizio distrattamente benevolo; così disposti a
congedarsi l’uno dall’altra per sempre, quel tramonto, a quell’angolo di
strada.
[…]Lui ha gli occhi azzurri, chiari, celesti, blu come il
cielo. Quando guarda la luce le sue pupille si dilatano e quando guarda me
abbassa gli angoli, le sopracciglia e tutto il suo volto diventa un concentrato
di dolcezza e di amore. Io ho gli occhi castano scuro, quasi neri, pronti a
cogliere ogni minimo dettaglio; dice che lo buco con lo sguardo. In realtà
cerco di capirlo.
L’ho capito.
Lui non riesce a confrontarsi con i sentimenti, io provo uno
strano piacere nel metterli a nudo e farli uscire fuori. Il risultato è che io
sorrido sempre, rido a volte. Lui non ride mai, ma sorride sempre. Eppure, se
io sorrido lui sorride. E soprattutto, se lui ride, sistematicamente, come
all’improvviso, scoppio a ridere anche io.
Lui mi ama e, per una volta, lo amo anche io.
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